Giuseppe Spina, «La sublime opposizione. L’invisibile nella fotografia di Matilde Soligno»
Giuseppe Spina _Founder of Nomadica film festival
La sublime opposizione. L’invisibile nella fotografia di Matilde Soligno
Partiamo da un punto invisibile, dal movimento dal quale nascono queste foto. Movimento, viaggio, ricerca dell’essere, ricerca di linguaggio, interiore, esteriore. Da uno sguardo su una terra non geograficamente indicabile, senza un indice, dunque terra senza simboli o simbolizzazioni date a priori. Pensiamo ora alla difficoltà, alla condizione utopica di arrivare a un livello che manchi di tracce oggettivamente riconoscibili, in un’epoca contemporanea in cui ogni luogo è conosciuto, è toccato dall’uomo e in questo contatto è marchiato. Ogni luogo è reso riconoscibile nel suo esistere, nel guardare generale dei mille occhi che ci circondano, e che forse ci permettono pure vita, esistenza.
Un «viaggiare», quello di Matilde, in cui il corpo è in continuo movimento ma l’occhio è meravigliosamente statico: a creare una situazione che potremmo intuire come «ossimorica», per via del farsi stesso del corpo, del suo essere legato al mondo. Forse riassumibile in una «viva-morte», che mette in gioco la stessa esistenza seriale, quella che ci viene data dal simbolo e che spesso fa sì che ci riconosciamo, tra noi o in noi stessi. Ma cosa accade realmente? Qual è lo scarto a cui si arriva?
In questa fotografia si percepisce un’assenza totale, i luoghi non sono vissuti, semmai sono solo un passaggio, è come se anche chi genera questo scatto/sguardo/momento sparisse un istante prima del click. Quest’assenza bidimensionale interna all’immagine assume un inquietante aspetto quadridimensionale all’esterno dell’immagine stessa, come se il nulla, osservando la foto, si presentasse non di fronte ai nostri occhi ma DENTRO di essi. L’assenza, il vuoto, viene proiettata DAVANTI alla foto, dunque diviene il prodotto stesso di chi la osserva, provocando in chi guarda lo smarrimento di quelle basi di simboli che creano il nostro essere-apparente. Occorre però fare attenzione, chi guarda non arriva a trovare la propria «essenza reale», che qui è solo messa in dubbio. Questa fotografia (come è giusto che sia) non dà soluzioni, né consigli, non parla, non suggerisce niente. Provoca sensazione.
Ma passiamo ora invece attraverso ciò che potremmo definire il punctum invisibile. Esso è invisibile perché non sta in ciò che c’è, ma al contrario in quello che non si vede (ma si dà), nel «segno invertito». E cos’è l’ossimoro se non l’opposizione del segno nel suo stesso piano d’azione? Un’opposizione non nasce mai dalla negazione ma dalla convivenza di entrambi i segni: dunque questa fotografia non toglie, ma guarda in una propria direzione (che poi ne fa anche la sua individualità, la propria essenza, la quale sta proprio nell’inversione del segno seriale).
Le rare figure umane, o le tracce di esse, che intravediamo risultano sospese in un vago tono espressionista, ne percepiamo a tratti il mistero che vi sta dietro, senza uno sviluppo. Questo mistero non vuole né ha bisogno di uno sviluppo, e la stessa spinta verso un’ipotetica narrazione, verso una «storia di quell’attimo» è cosa sterile, che acceca. Occorre spingere lo sguardo oltre la figura, che infatti si dà sempre come piccola, infinitesimale nei confronti della totalità del quadro, che devia, inganna, dando certo una «profondità» solita, abitudinale, all’immagine.
Proviamo ora a eliminare questa piccola attrazione, questa traccia umana in cui tendiamo sempre a riconoscerci. Proviamo a non concepire l’essenza come quel concetto che garantisce l’identità di una cosa ma, come suggerisce Heidegger, contestualizziamola al momento storico che stiamo attraversando, consideriamola come il frutto dell’essere che ha luogo nel e attraverso il linguaggio, come manifestazione di un’epoca. Avremo così un risultato opposto (ancora un’opposizione) tanto alla possibilità narrativa lasciata a chi guarda, quanto alla profondità dell’immagine di cui si diceva.
Ne verrà fuori una spinta che muove verso ciò che la fotografia NON mostra, in un linguaggio non solo fotografico, ma antropologico, spirituale, archeologico, che annulla quell’apparente serializzazione del mondo in cui l’occhio narrativo facilmente s’incastra: che rende evidente quella vita nascosta nella morte (morte di luoghi, di tempo, e purtroppo d’immagini).