Vita sotterranea :: Murali e graffiti dei prigionieri delle cisterne di Ventotene

Ventotene, che alcuni ritengono essere “l’isola delle sirene” di cui Omero narra nell’Odissea, è una delle isole dell’arcipelago pontino; nota ai greci come Pandataria, che significa “dispensatrice di ogni bene”, i Romani furono i primi a insediarvisi e a farne la sede di un palazzo imperiale, costruito durante il primo secolo d.C. dall’imperatore Augusto per essere meta di villeggiatura, ma che presto diventò luogo di esilio per alcune donne dell’élite romana, prima delle quali la stessa figlia di Augusto, Giulia, da cui il nome di Villa Julia.

Essendo di origine vulcanica, l’isola è priva di falde acquifere; i Romani vi costruirono quindi due grandi cisterne, nelle quali convogliavano e immagazzinavano l’acqua piovana sfruttando le pendenze e l’impermeabilità (all’epoca garantita da un folto bosco di lecci) naturali dell’isola. Secondo la tecnologia del tempo e grazie alle grandi doti ingegneristiche dei Romani, le cisterne furono scavate nel tufo e in parte ricoperte di un materiale impermeabile detto cocciopesto; al loro interno venivano allevati i capitoni, che ne garantivano pulizia e ossigenazione. Sempre sfruttando le pendenze, un acquedotto portava poi l’acqua verso la villa, ad alimentarne i complessi giochi d’acqua nonché l’adiacente porto.

L’isola fu poi abbandonata e rimase pressoché disabitata a partire dal V secolo d.C. e durante tutto il Medioevo. La sua condizione di isolamento la rese tuttavia meta privilegiata per monaci ed eremiti, i quali per lungo tempo ne abitarono le cisterne, utilizzandole come rifugio dalle incursioni saracene e come luogo di culto: sono infatti ancora visibili le edicole votive che intarsiarono negli spessi muri del sotterraneo.

Quando poi negli anni 1730 i Borbone divennero legittimi proprietari di tutto l’Arcipelago Pontino, venne dato il via alla ripopolazione delle isole. Nell’attesa di assegnazioni in enfiteusi perpetua, i coloni incominciarono a insediarsi sulle isole, occupando in principio grotte. Si andavano quindi creando i presupposti per una nuova urbanizzazione, la seconda dopo quella romana; Ferdinando IV predispose che il progetto, di ispirazione illuministica, fosse da effettuarsi in tempi brevi attraverso una manodopera costituita da 100 forzati. Questi ultimi furono “alloggiati” nell’antica cisterna romana, che da allora ha preso il nome di “Cisterna dei Carcerati”.
La tradizione di luogo deputato “di rilegazione” fu poi ripresa dai Borboni negli anni 1820 e un secolo dopo dal regime fascista, così che Ventotene divenne a lungo meta di confino, ospitando in gran parte prigionieri politici.

Durante i lunghi anni di lavoro diurno seguito dalla reclusione serale nel buio totale delle cisterne, i forzati intervennero sul proprio ambiente con pitture murali, disegni e graffiti, molti dei quali rimangono di dubbio significato e immutato fascino. Questi uomini hanno trovato l’animo per dipingere nell’oscurità una pluralità di segni che, in alcuni casi, hanno ricoperto con linguaggi propri quelli precedentemente incisi dai monaci negli altari votivi, e in altri hanno creato veri e propri ambienti, ricontestualizzando quei muri sotterranei. Dietro una curva si scopre lo scenario di una sorta di stanza, evocata da una serie che potremmo definire di “trompe l’oeil”: una fila di quadri disegnati sul muro, la cornice vuota ma sovrastati da quelli che potrebbero essere simboli funerari. Il significato del murale è ancora misterioso ma nondimeno apre a una serie di strade; in questa atemporalità ci spinge fino ad attribuire al tutto una valenza postmodernista ovviamente molto distante dalle ricerche dell’epoca, ma che approfondisce il riverbero della vita sotterranea di questi antenati.

(Ulteriori informazioni nelle didascalie alle foto. All photos © Matilde Soligno)



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